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2008-11-24

Se la nostra lingua è un abito, io parlo in t-shirt

Il dialetto è il corpo della lingua, la lingua colta, il vestito.
Martin Walzer, La Repubblica – 22.11.2008

Mi sono sempre interrogato sulla mia tendenza a parlare perlopiù in dialetto. Cosa che sorprende quanti mi considerano “colto”, per loro è quasi uno scadimento. Potrei benissimo dimostrare come il dialetto abbia una propria nobiltà, ma comprendo le perplessità. Non sono di quelli che ne fanno un vanto, sbagliando così in maniera simmetrica rispetto a quanti idolatrano l’italiano. A me per esempio non piace che le donne parlino troppo in dialetto. In ogni caso, la mia tendenza può sorprendere solo chi non mi conosce bene.

Ad essa concorrono tanti motivi. L’abitudine, innanzitutto.Vengo da un famiglia impiegatizia in cui si è sempre parlato in dialetto. Nella vita quotidiana, intendo, salvo riservare l’uso dell’italiano per interloquire con bambini ed estranei. Senza per questo essere una famiglia di buzzurri. Siamo di discreta educazione e decente gusto estetico… Perciò, l’italiano che poi mi ritrovo a parlare è del tutto letterario, appreso cioè sui libri di letteratura. Uso correntemente il congiuntivo e il condizionale, indulgo ad una ricercatezza lessicale (ma non per snobismo, per desiderio di essere “preciso”…) e non fa niente se la velocità d’eloquio ne soffre, insomma, il mio italiano somiglia tanto a quelle deformazioni linguistiche cui porta, per esempio, la professione. Fateci caso: l’avvocato, il farmacista, il poliziotto, eccetera, ognuno ha un linguaggio modellato sulla lingua professionale. Io ho un italiano modellato sulla letteratura. Da sempre mi diverto a fare un paragone, che curiosamente trova assonanze con la citazione d’apertura: il dialetto per me è stare con jeans e t-shirt, l’italiano è stare con lo smoking. Grazioso, certo, e magari prezioso, ma provate voi ad andare in bici con lo smoking. Non serve nella vita quotidiana, basta un vestito di buona foggia, inoltre lo smoking può avere la controindicazione di marcare una differenza con l’interlocutore, specie di quelli abituati ad un italiano quotidiano, col risultato di farmi sembrare sempre uno che vuole fare il professore o che se la tira! Ma non lo faccio apposta, è che non ho altro abito!

Proprio come indossare lo smoking è “faticoso”, uso spesso il dialetto per colpa della cugina dell’abitudine, la pigrizia. Mi scoccio di parlare in italiano come ci si scoccia di indossare il “vestito della festa”. A ciò (ecco, per esempio, chi usa normalmente il “ciò”?) si aggiunge uno strano senso di “rivendicazione sociale”. Mi piace parlare in dialetto perché mi fa sentire la mia radice popolare, mi evita quel “retrogusto” di fighetto e borghese che sento sempre ad usare l’italiano (il mio italiano letterario frutto di buone letture). Del resto, come suggerisce il simboletto di Sentitovivere, sono un animale strano, un incrocio nemmeno tanto riuscito. Una delle frasi che uso per definirmi è questa: “Ho letto troppi libri per essere uno di strada, e sono stato troppo in strada per essere un colto borghese”. Un’incrostazione di luoghi comuni e pregiudizi, direte. Già. Eppure.

Tra i ricordi legati al mio linguaggio, uno riguarda il servizio militare. Durante la naja, parlavo inderogabilmente in dialetto (ilbattisalerninapoletano, tra civitavecchiesi che ve li raccomando, usano un italoromanotoscanoumbro, mamma mia). Una forma inconscia di resistenza passiva, forse per segnalare la mia inassimilabilità. L’abitudine fu notata da un capitano spiritosone d’origine abruzzese che una volta, volendomi mettere in difficoltà davanti a tutti, mi apostrofò, un po’ sprezzante: “Ahò, nun parlà indigeno”. Cosa che, in effetti, facevo, non esprimendomi in italoromanotoscanoumbro, ma vaglielo a spiegare. Così, a sprezzo d’ogni punizione, gli risposi a brutto muso: “Quando da me c’era la Scuola Medica Salernitana dalle tue parti pascolavano ancora le pecore”. Il capitano capì la serietà della faccenda, sottolineata da quel “tu” mai prima e mai più usato da parte mia nei suoi confronti, e abbozzò un sorriso. Perché la lingua è una faccenda maledettamente seria. La lingua è patria, chiedilo a tutti gli espatriati del mondo a partire dagli ebrei, e la lingua è anche occupazione di essa, come dimostrano i tanti anziani che ancora oggi hanno un brivido a sentire il tedesco. La lingua è la nostra prima casa, è la famiglia, è la giovinezza. Insomma siamo noi, qualsiasi sia il vestito che poi ognuno decide o si abitua ad indossare.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Ben detto!
...anzi: pur'e pe' mme è accussì!

Anonimo ha detto...

Visto che non vivo a casa anch'io sono quasi sempre in "smoking" ma con ciò non manco di sfoderare, anche in momenti seri o semiseri, la mia "t-shirt" con estrema tranquillità e un pizzico d'orgoglio...

Anonimo ha detto...

A me non piace sentire parlare il dialetto dai bambini(soprattutto le poesie).Ma mi piace sentirlo dagli anziani,soprattutto quelle parole dette in dialetto stretto,perchè nella loro semplicità è nascosta una grande saggezza. (poli)

Anonimo ha detto...

Vorrei solo ricordare che alcuni "dialetti" come il Napoletano e il Sardo sono, difatto, riconosciuti come lingue vere e proprie dalla comunità scientifica internazionale.

In particolare il "dialetto" Napoletano non ha raggiunto ancora lo "status" di lingua solo perchè non esiste ad oggi
una "grammatica" costante e definita.

Come dico sempre noi ... Visualizza altroin Campania conosciamo almeno una lingua straniera : l' Italiano e come tutte le lingue straniere insegnate in Italia lo parliamo in maniera scadente come l' Inglese, il Francese, ecc ....

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