Se dico “schiavo” quale immagine vi sale agli occhi? Visivamente, cosa vi viene in mente, d’istinto? Un nero in catene, modello Kunta Kinte? Un uomo che insieme a centinaia come lui trascina un masso, modello piramidi dell’Antico Egitto?
Per quanto mi riguarda, da sempre ho associato lo schiavo a quell’omaccione, di solito nero, che mezzo nudo fa ondeggiare un grande ventaglio per sollevare dalla calura la padrona bianca (e stronza) di turno, nei film ad ambientazione storica. Ho sempre trovato quella funzione da elettrodomestico la più umiliante tra le umilianti. Perché passi essere sfruttato come forza lavoro per l’agricoltura e per l’edilizia, ma soffiare la propria padrona sa di sadismo, perversione, decadenza. É un po’ come durante la naja: va bene fare le guardie e i campi, ma fare il barista negli spacci, dai! Epperò, poi ad interrogare gli schiavi (e chissà, i militari baristi) magari quell’occupazione é benedetta, perché ti evita lavoracci peggiori. Poi, nei sogni più pecorecci, forse ci scappa anche qualcosina d’erotico con la padrona…
Ma divago. Sto divagando. In ogni caso, resta ferma l’impressione, che mi porto dietro da quando ero bambino: per me lo schiavo è quell’uomo umiliato ad agitare il ventaglio al padrone/a. Devo essere l’unico, visto che a Lipari un lido “offre anche ‘Il vù sciuscià’, extracomunitari sventolano dei ventagli per 5-10 euro l'ora per i bagnanti sdraiati” (la Repubblica – 21.08)
Non voglio fare il moralista, so bene la distanza che c’è tra la schiavitù e un servizio reso a pagamento, ma la cosa mi fa orrore. Esteticamente proprio. Lo so, sono i cosiddetti servizi alla persona, e dovrei scandalizzarmi per camerieri, baristi, massaggiatori, estetiste, parrucchieri, ecc ecc. Ma farsi fare vento, dai!
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2008-08-22
Kunta Kinte e vù sciuscià
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